Amos Gitai nasce nel 1950 in Israele da una famiglia di migranti. Il padre infatti è un architetto tedesco che, dopo la formazione presso l’istituto del Bauhaus, si è trasferito in Palestina a causa dell’avvento del nazismo, mentre la madre proviene da una famiglia di sionisti russi migrati in Palestina a inizio secolo. Seguendo le orme del padre, Gitai comincia gli studi di architettura, prima nella città natale di Haifa, poi a Berkeley, in California, dove si trasferisce nel 1977. Nel 1973 prende parte alla guerra del Kippur prestando servizio militare in una squadra di soccorso e sopravvivendo all’abbattimento dell’elicottero sul quale viaggia. Si tratta di un’esperienza che probabilmente lo segna tanto da spingerlo ad abbandonare la professione di architetto per dedicarsi totalmente alla cinematografia documentaria, che aveva coltivato in realtà già durante gli studi realizzando alcuni progetti per la televisione israeliana e iniziando già a scontrarsi con la censura.
Come vero e proprio esordio alla regia viene generalmente considerata la pellicola Bayit (1980), censurata per l’appunto dalla televisione israeliana la quale non concede le licenze per mandarla in onda. La pellicola scava metaforicamente nel passato recente di Israele approfondendo le vicissitudini di una singola casa nella Gerusalemme orientale, e già presenta molti dei caratteri più rappresentativi della cinematografia dell’autore, come la forte compenetrazione tra inquietudini personali e più ampie problematiche sociali. Da questo momento infatti la sua indagine si concentra sulle controverse vicende politiche di Israele, esplorando dapprima i suoi rapporti con la Palestina, in progetti come Wadi (1980) e Field Diary (1982), poi le complessità della contemporanea identità palestinese, con In Search of Identity (1980) e infine interessandosi al contesto mondiale. Di quest’ultima fase documentaria sono le opere Pineapple (1983) e Bangkok Bahrein (1984), che esplorano gli scambi di merci ed esseri umani nel mercato mondiale.
Il 1985 segna il suo passaggio alla realizzazione di fiction films con Esther (1985), dove il testo biblico viene ricontestualizzato nella periferia abbandonata di Haifa. Il passaggio alla fiction non segna tuttavia un allontanamento dalle vicende politiche, sociali e culturali della sua nazione, che continuano ad occupare una posizione centrale nelle narrazioni, spesso intrecciate a vicende personali. E’ questo il caso di Kippur (2000), dove prende vita sullo schermo la sua esperienza militare, oppure Caramel (2009), che sembra rielaborare il passato paterno e la sua esperienza di emigrazione, per fare solo due esempi. Dal 1993, Gitai è inoltre tornato in Israele dopo quasi vent’anni di lontananza e una carriera già avviata come stimato cineasta in occidente. La ragione di questa decisione si ritrova forse in un sincero amore per la sua patria, che occupa sempre uno spazio centrale nelle sue pellicole, spesso sotto uno sguardo critico e di denuncia. Il regista si è infatti più volte espresso sostenendo che il più grande omaggio di un cineasta al proprio Paese si traduca nella capacità di criticarlo, di individuare quali sono i suoi problemi per cercare di migliorarlo. Non stupisce che questo abbia comportato una difficile relazione con il governo israeliano, oltre che suscitare reazioni controverse tra lo stesso pubblico nazionale e internazionale fin dai suoi primi lavori. In effetti, il suo trasferimento prima negli Stati Uniti e poi in Europa è dovuto principalmente alle difficoltà pratiche di operare in Israele, dove spesso spesso le sue opere sono state censurate. Di conseguenza, la sua cinematografia ha raramente raggiunto una dimensione commerciale e di massa, sebbene abbia allargato il proprio pubblico dopo il passaggio al genere fiction, ottenendo invece grande visibilità presso i principali festival mondiali, tra cui il Festival di Cannes, Locarno e Venezia. Kippur vince infatti il Premio François Chalais nel 2000, mentre nel 2004 Terra promessa ottiene il Premio CinemaAvvenire. Ancora, il Locarno Film Festival nel 2008 gli consegna il Pardo d’onore, celebre premio alla carriera. Tra i numerosi riconoscimenti, molti sono relativi alla sua capacità di affrontare tematiche connesse ai diritti umani, alla diversità culturale e ai conflitti nel mondo, come nel caso del Premio Human Rights Nights, assegnatogli per A Letter to a Friend in Gaza nel 2018, anno in cui vince anche il Premio UNIMED per A Tramway in Jerusalem.