Negli ultimi due giorni di festival sono proseguiti gli incontri con i registi del Concorso presenti a Venezia: questa volta è il turno di Adel Oberto (Il Conte), Arnaud Dufeys (Atomes) e Dino Santoro (Il più bel giorno della mia vita).
Appassionato di cinema sin dalla giovane età, grazie a genitori che gli facevano vedere capolavori come l’Otello di Orson Wells, Adel Oberto si è formato prima all’università di Pisa per poi trasferirsi in Inghilterra per completare la propria formazione. Qui, alla National Film and Television School situata poco fuori Londra, ha prodotto il cortometraggio Il Conte, presentato in Concorso allo Short Film Festival. L’opera è stata girata interamente in Italia, nei pressi di Genova, ed è ambientata durante la stagione della Resistenza. La vicenda, che il regista confessa non ispirarsi a fatti realmente accaduti, pur essendosi basato su vecchi racconti di famiglia, ruota attorno la figura di un solitario Conte, abitante di una grande villa. Nonostante tenga ben saldi i suoi valori, il protagonista non rifiuta di aiutare e dare ospitalità sia a un gruppo di partigiani che ai militari repubblichini guidati dal sergente Sormani. Nel corso del film emergono l’insofferenza del Conte verso una guerra che gli ha portato via il figlio, così come i suoi valori, che lo porteranno a rifiutare di tradire il gruppo di partigiani, condannandolo a fucilazione certa. Proprio questa risulta essere la scena di maggior impatto, ispirata a una testimonianza video che riporta la modalità con cui nel 1944 fu giustiziato l’allora questore di Roma. Dal punto di vista tecnico, Oberto sottolinea come il film sia stato girato all’insegna della semplicità, quasi sempre con camera a mano; il magnifico piano sequenza che compare all’interno del film risulta infatti essere l’unica scena che ha necessitato dell’utilizzo del carrello. Il regista conclude dicendo di essere rimasto felicemente colpito dallo Short Film Festival, esaltandone il suo carattere giovane e l’ottima organizzazione.
Atomes (Atomi). Questo il titolo dato al proprio cortometraggio dal giovane regista belga Arnaud Dufeys. Studente dell’Institut des Arts de Diffusion di Louvain-La-Neuve in Belgio, la sua idea iniziale era quella di “realizzare una storia di fiction, che parlasse di una rottura amorosa tra due uomini”. In essa il trentanovenne Hugo, insegnante in una scuola, si vede sconvolgere la vita da un suo allievo, Jules, un adolescente provocante. I 18 minuti dell’opera raccontano con grande sensibilità il rapporto tra educatore e allievo, descrivendo qualcosa che si colloca ambiguamente tra amore, affetto, complicità e protezione. Hugo vede nel ragazzo il figlio che non ha mai avuto, quest’ultimo sembra prendere l’insegnate come figura paterna sostitutiva. Il giovane regista ha sviluppato questo lavoro trascorrendo qualche mese in una scuola, per osservare da vicino i ragazzi nei loro comportamenti quotidiani e, come lui stesso racconta, una volta iniziato a delinearsi il plot, la storia ha preso una piega propria, acquisendo sempre più elementi che raccontavano l’età adolescenziale. “Ho scritto una storia che non è né documentario, né propriamente la storia d’amore che avevo immaginato all’inizio”, e in effetti la storia sembra parlare più di affetto che d’amore. Jules è un ragazzino spavaldo e arrogante davanti ai suoi compagni, dolce nel privato, ma “non c’è differenza tra generazioni, non sono cambiate negli anni; si tratta di comportamenti diventati abitudine”, in quanto si tende a contrapporsi agli altri per affermare se stessi. Sottolinea poi: “non era mia intenzione mandare un messaggio sull’omosessualità – che penso sia un argomento ormai ampiamente accettato – quanto far riflettere sui rapporti tra persone di età differenti.” Colui che deve educare e che ricerca un dialogo con gli studenti si ritrova investito di valori più grandi di lui nel momento in cui vi è una mancanza in chi gli si trova davanti. Nel caso di Jules, la mancanza è quella dell’affetto familiare, che il giovane finisce per trovare nel suo insegnante: “Non c’è pedofilia, Hugo è attratto da Jules, perché è quest’ultimo che cerca un contatto, che lo affascina”. Il treno che nel finale porta il ragazzo lontano, è metafora di un viaggio che tutti intraprendono, quello “del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Nonostante la rottura con qualcuno di importante, per cui si è tristi, sconsolati, il treno porta lontano, verso nuove possibilità e una nuova speranza”. Dufeys parla infine anche di questa sua prima esperienza a Venezia e ringrazia il festival, che rappresenta un’opportunità importante per studenti di scuole di cinema come lui per uscire dal solito contesto, permette di fare esperienza con nuovi spettatori e conoscere (e farsi conoscere) all’estero. “E poi c’è Venezia, una città fantastica e unica, che io ho conosciuto attraverso Fellini e molti altri registi italiani e non. Sono rimasto affascinato da quei film che ne mostrano il lato più inquietante, ribaltando quell’idea di città romantica che si ha comunemente. Una ‘città del cinema’, comunque, per cui ho subito pensato che un film qui bisognerebbe assolutamente girarlo!”
Il più bel giorno della mia vita, il corto di Dino Santoro, studente del DAMS di Bologna, gioca invece con le molteplici forme che assumono le relazioni affettive e amorose contemporanee, intrecciandole in una divertentissima commedia degli equivoci. In una torrida giornata di festa qualcuno attende sull’altare, mentre il prete prepara gli oggetti della liturgia e le lancette scattano inesorabili nel silenzio appesantito dalla calura estiva. Gli ospiti ingannano il tempo, ognuno a suo modo: le anziane pettegole mormorano, le giovani vanitose accavallano le gambe strette in tubini succinti, gli uomini sudano e si fanno coraggio. Si svolge così un racconto corale senza tempo, tra i banchi di una piccola chiesa di campagna che paziente, si lascia sconsacrare dall’umanità più frivola. Una fotografia dei vizi e delle virtù della società di oggi e di ieri, che non si lascia predire e che sorprende. Il regista dichiara che il suo interessa era incentrato soprattutto sui personaggi, per questo ha deciso di rappresentarli in massa, trattandoli un po’ come fa Buñuel in L’angelo sterminatore, chiudendo i personaggi in una chiesa (in Bunuel era una casa), trattandoli come un oggetto unico, in modo da far emergere il peggio di questa massa, il peggio che poi è in ognuno di noi. Santoro, alla sua prima esperienza con la commedia, racconta di come il tono della pellicola si sia trasformato durante le riprese, assumendo un timbro più tragicomico nella rappresentazione di un’umanità meschina e gretta. In fin dei conti lo sposo bamboccione protagonista del corto, è vittima di una società che aspetta di deriderlo piuttosto che di vederlo felice. Il regista annovera tra i suoi maggiori riferimenti cinematografici sia classici come Kubrick e Lynch che cineasti contemporanei o emergenti come Aronofsky e McQueen. Tra citazioni più o meno alte, ci racconta che la scena iniziale vorrebbe essere un piccolo omaggio proprio a Lynch, in quella figura del goffo fotografo che racchiude il presagio della celebrazione del matrimonio che andrà storta. Anche lui conclude con un pensiero per il festival: “Quello che mi colpisce positivamente è soprattutto la formula utilizzata per realizzare lo Short; non se ne vedono molte in giro di iniziativa del genere, gestite dai giovani e organizzate da enti come l’Università. Penso che il cinema sia innanzitutto condivisione e mi piace l’idea di condividere il mio lavoro e di essere giudicato direttamente dai giovani”.
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