PETER GREENAWAY E UN CINEMA “FUORI FORMATO”: la masterclass dell’artista britannico esplora nuove possibili vie per il cinema
LA SUSSURRATA E COLORATA POESIA DI GITANJALI RAO: l’animatrice indiana si racconta e ammette : “Non amo Bollywood, ma ci sono dentro. Non puoi sfuggire”!
Venezia, 23 marzo. Protagonista della seconda giornata del Ca’ Foscari Short Film Festival è stato senza dubbio Peter Greenaway, cineasta visionario e provocatorio, che rappresenta un punto di riferimento per il cinema d’autore contemporaneo. Artista a tutto tondo, Greenaway ha alle spalle circa quarant’anni vissuti nel mondo del cinema. Tra i suoi lavori più importanti, ricordati anche dal Prorettore alle attività culturali Flavio Gregori – che ha introdotto la masterclass – figurano opere come Il ventre dell’architetto (1987), Giochi nell’acqua (che gli vale il riconoscimento come Miglior Contributo Artistico a Cannes nel 1988), Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) e L’ultima tempesta (1991), tutti apprezzati a livello internazionale.
In un Auditorium gremito di spettatori, il cineasta ha tenuto una preziosa masterclass sui linguaggi espressivi utilizzabili nel cinema, essendo lui portatore di una visione dell’arte sincretica. Greenaway è infatti non solo regista, ma anche pittore: a quest’arte egli rimanda spesso nei suoi film e nelle sue installazioni, in cui ogni inquadratura si carica di significati simbolici a sé stanti. Greenaway ha iniziato con una tagliente e ironica digressione sulla situazione del cinema attuale, dichiarando che la Settima Arte si trova in una situazione critica: “Se volete essere dei critici cinematografici, avete i giorni contati… Forse avete altri 3 anni. La qualità del cinema di oggi sia è abbassata e il suo linguaggio si è impoverito”. Il regista britannico ha affermato che il cinema come lo conosciamo sta arrivando alla sua fine: andare al cinema non è più una consuetudine come lo poteva essere venti anni fa, ora si tende maggiormente a una fruizione individuale, su piccolo schermo nella propria casa, togliendo gran parte del fascino al buio della sala.
I film, secondo Greenaway, dovrebbero essere composti al 50% da intrattenimento e al 50% da contenuti; la sfida che il cineasta si trova ad affrontare sta proprio nel bilanciare queste due componenti, in modo da produrre un’opera d’arte di qualità. Ha poi sottolineato come, a questi fini, la trama non sia fondamentale affermando che “Spesso si esce dalla sala senza nemmeno ricordarsi l’intreccio della storia”, e che quindi il cinema sia sostanzialmente un assemblaggio di storie da raccontare, immagini in movimento e musica. Partendo da queste premesse, Greenaway ha presentato alcune delle sue video istallazioni, come quella realizzata per la Triennale di Milano: completamente priva di trama, è un accostamento di simboli provenienti dalla cultura italiana e reiterazioni delle stesse immagini, il tutto con un accompagnamento musicale eseguito da strumenti ad arco. In Writing on Water invece accosta immagini di un’orchestra che esegue una melodia di sottofondo ad altre di genere acquatico, mentre in sovrimpressione scorrono famosi versi di Shakespeare, Melville e Coleridge legati all’acqua. Greenaway ha poi parlato di come due tematiche in particolare appassionino e attirino il pubblico in sala più di ogni altra, ovvero sesso e morte, temi sui quali anch’egli ha concentrato parte della propria opera, illustrando il connubio tra eros e thanatos in alcune opere sperimentali e non narrative, due delle quali ambientate in Italia, a Luca e a Venezia. Greenaway ha poi concluso con una sequenza contenente numerose esplosioni atomiche, accompagnate da frasi in sovrimpressione in diverse lingue che informano sul numero di esplosioni avvenute sulla Terra, “Per ricordare alle persone l’imminente distruzione”. Il regista ha concluso la masterclass mostrando la sua famosa installazione incentrata sulle Nozze di Cana, per poi ringraziare e salutare il pubblico che lo ha ricambiato con un lungo applauso.
Altro ospite di rilievo della seconda giornata è stata la celebre animatrice indiana Gitanjali Rao, che in occasione del programma speciale a lei dedicato “Il mondo di Gitanjali Rao” – curato da Cecilia Cossio – ha raccontato al pubblico presente in Auditorium Santa Margherita la sua personale esperienza nel mondo dell’animazione partendo dagli esordi fino agli ultimi progetti a cui sta lavorando.
“L’animazione mi permette di conservare la pittura e di adattarla al cinema”. Per Rao il percorso verso il mondo dell’animazione parte proprio dalla sua formazione come pittrice e dalla sua volontà di voler entrare nel mondo cinematografico riuscendo al contempo a non perdere la sua espressione artistica. Una combinazione che può trovare realizzazione nel mondo animato e la stessa animatrice confessa tutt’ora di “dipingere a mano frame per frame” le sequenze dei suoi corti, proprio per non perdere questa sua grande passione. Una tecnica che richiede molto tempo di lavoro e che ha reso uniche le sue opere, portandole all’attenzione internazionale. Tuttavia, la strada verso il riconoscimento globale è stata tutt’altro che facile. Come ha sottolineato durante l’intervista sul palco, la sua esperienza si è basata su uno studio principalmente autodidatta che si è scontrato con l’attuale blocco dell’animazione indiana. Infatti, Rao ha raccontato come la principale difficoltà dell’essere completamente indipendente sia correlata al parziale disinteresse nazionale per la promozione di questo settore della settima arte. Una realtà dove l’animazione viene relegata al mero piano commerciale, gli aiuti governativi scarseggiano e i risultati faticano ad emergere, schiacciati dalla grossa concorrenza internazionale.
La conversazione è proseguita, focalizzandosi sul rapporto che intercorre tra l’autrice e la sua città natale, Mumbai, protagonista caotica di alcuni dei suoi cortometraggi. A tal proposito è risaltato anche il ruolo del cinema Bollywoodiano, a cui la regista si relaziona altalenandosi tra un continuo odi et amo: “Non amo Bollywood, ma ci sono dentro. Non puoi sfuggire! […] Mumbai senza Bollywood non sarebbe più la stessa.”.
Infine, Gitanjali Rao ha condiviso col pubblico informazioni sul suo ultimo progetto – Bombay Rose – che uscirà l’anno prossimo ed è realizzato anche grazie a contributi francesi. Il film racconta la storia d’amore tra un ragazzo musulmano e una ragazza induista. L’artista ha poi introdotto cinque dei suoi cortometraggi: True Love Story (2014), Chai (2013), Blue (2006), Orange (2006) e Printed Rainbow (2006, vincitore del premio per Miglior cortometraggio a Cannes) che hanno permesso di ammirare le impressionanti abilità pittoriche e narrative dell’autrice. Essi hanno accompagnato visivamente lo spettatore all’interno di mondi colorati o sulle strade pittoresche di Mumbai, raccontando storie senza aver bisogno di dialoghi e mescolando elementi della tradizione cinematografica europea con la cultura indiana, dalla danza e dalla musica nazionale. In quello che la stessa autrice ha definito una “serie di quadri messi in movimenti, l’uno a fianco all’altro”, la proiezione si è conclusa tra gli applausi e l’emozione dei presenti.