Programma speciale a cura di Cecilia Cossio
Lo storico Amrit Gangar, per evidenziare i tratti che caratterizzavano alcuni registi, tra i quali Amit Dutta, genericamente definiti ‘sperimentali’, aveva coniato un’espressione ormai entrata nell’uso: “cinema of prayoga”. Il termine sanscrito prayoga può significare ‘esperimento’, ‘uso’, ‘progetto’, ‘causa’, ‘effetto’, ‘rappresentazione’ o ‘pratica’. E’ una nozione molto più ampia, più profonda e più sottile di ‘sperimentale’. E più adatta a definire alcuni contorni dell’opera unica di Amit Dutta, che tuttavia preferisce definirsi margi (una persona che cerca una via in avanti).
Nato nel 1977, nei pressi di Jammu, nella parte più settentrionale dell’India, vive a Palampur, in Himachal Pradesh, lo stato appena sotto Jammu & Kashmir. Nel 2004 si diploma in regia al Film and Television Institute of India (FTII) di Pune, la scuola di cinema più prestigiosa del paese. In questo ambiente realizza i primi lavori, come Ksha tra ghya (X y z, 2004) e soprattutto Kramasha (Continua, 2007), che lo espongono subito all’attenzione internazionale.
Dopo i primi film, “flamboyant expression of whatever I had learned at film school”, sente l’esigenza di fare un cinema di ricerca, che si concreta in Nainsukh (2010), eccezionale tributo al grande miniaturista del XVIII secolo. Nascono così i film che esplorano il mondo dell’arte e i sistemi indigeni di conoscenza, come Saatvin sair (Il settimo cammino, 2013), dedicato al pittore Paramjit Singh; Gita Govinda (2014), sulle miniature basate sull’opera omonima di Jayadev (XII sec.); e Lal bhi udhaas ho sakta hai (Anche il rosso può essere triste, 2015), sull’opera del pittore Ram Kumar: “Cinema becomes a way of searching and learning through culture, history, music, beauty and eventually truth”. Forse, cinema di ricerca o, meglio, di conoscenza potrebbe essere la giusta definizione della sua opera.
I film che qui presentiamo ben la rappresentano, a cominciare da Jangarh: Film ek (Jangarh: Film uno, 2008), un documentario sul famoso pittore tribale, suicidatosi nel 2001 in un museo giapponese. L’indagine iniziata nel film trova compimento nello straordinario libro di Amit Invisible Webs. An Art Historical Enquiry into the Life and Death of Jangarh Singh Shyam (2010).
The Museum of Imagination (2012) è il distillato di un incontro con lo storico dell’arte B.N. Goswami sulle tracce di Nainsukh, mentre Chitrashala (La dimora della pittura, 2015) è un silenzioso viaggio tra le miniature dell’Amar Mahal, il palazzo-museo di Jammu.
Su Amit Dutta hanno scritto critici e storici del cinema indiani e stranieri. Molti sono i premi e i riconoscimenti e numerose le retrospettive presentate in festival e istituzioni, soprattutto americane ed europee. Benché ampiamente discussa, infatti, la sua opera è molto poco vista in patria, dove i suoi film non ha ancora avuto una distribuzione pubblica. A ciò contribuiscono il suo auto-isolamento e la qualità non narrativa, filosofica quasi, del suo cinema. Ma il solo modo per entrare nell’universo unico del suo lavoro resta sempre quello quello di vederlo.
Jangarh: Film Ek / Jangarh: Film uno
2008, 24’
Research & direction: Amit Dutta
Camera: Kaushik Mondal, Pranay Shrivastava, Amit Dutta
Editing: Chinmay Sankrit, Kevat
Sound: Ajit Singh Rathaur
Production: Chinmay Sankrit
Il suicidio in un museo del Giappone di Jangarh Singh Shyam, famoso artista tribale, è all’origine di una ricerca durata molti anni. Questo documentario, girato nel villaggio di Patangarh, in Madhya Pradesh, ne costituisce il momento iniziale.
The museum of imagination – A Portrait in Absentia / Il museo dell’immaginazione. Ritratto in absentia
2012, 20’
Direction, editing & sound: Amit Dutta
Camera: Dhananjay Mrinal
Music: Kumar Gandharv, Krishna Kumari
Executive producer: Mahesh Sharma
Durante un incontro con lo storico dell’arte B.N. Goswami nella sua casa e nel museo di Chandigarh, sulle tracce del miniaturista Nainsukh (VIII sec.), il regista cattura gli ‘infraspazi, i silenzi soprattutto, creando un doppio “ritratto in absentia”, dell’artista e dello storico d’arte.
Chitrashala / La casa della pittura
2015, 20’
Direction & screenplay: Amit Dutta
Animation: Aiswarya Sankaranarayanan
Animation photography: Piyush Shah
Camera: Dhananjai Singh
Editing & sound: Samarth Dixit
Music: Catherine Lamb
Production: Amit Dutta & Ritu Khoda
Viaggio tra le miniature dell’Amar Mahal, il palazzo-museo di Jammu. Di giorno le miniature sono ‘oggetti’ che vengono guardati, ma di notte nel museo vuoto prendono vita, illustrando un’antico racconto.
Su Amid Dutta
“Quello di Dutta è un cinema di esplorazione. Esplorazione delle tradizioni di pittura, scultura, narrazione, interrelazione delle arti, suoni della natura, trame stratificate delle relazioni umane e molti di questi teneri ed essenziali fenomeni. L’esplorazione si svolge con una tecnica cinematografica estremamente raffinata, l’immaginazione che unisce trame sonore con elementi visivi, l’uso sottile di gradazioni di luce, di tonalità e di colori intervallati dall’uso brillante di una sceneggiatura o di un sottotitolo, come nesso del suono e dell’ immagine.”
In “Amit Dutta: The reticent revolutionary” di Udayan Vajpeyi, 21 luglio 2018.
“I film e le opere d’arte di Dutta sono raramente entità statiche, ma sono invece in continua evoluzione, costantemente realizzate e ricostruite, con i loro confini ridisegnati e confusi, negli occhi di chi guarda, con il mondo che rappresentano. (…) Negli ultimi anni, Dutta è diventato una sorta di emissario da un mezzo all’altro, (…) o un paesaggista che lavora con una macchina fotografica piuttosto che con un pennello.”
In “Dreams of Light: The cinema of Amit Dutta” di Max Nelson.
“La cinematografia di Amit Dutta è minimale e austera. (…) Il noto studioso di cinema Jonathan Rosenbaum ha definito Amit Dutta un “regista sperimentale indiano straordinariamente dotato”, (…) George Clarke lo ha definito un “regista sperimentale indiano di talento”. Nel contesto della durata cinematografica, trovo significativi i film di Dutta in cui si occupa della memoria. I suoi film come Masan, Chakravak e Ksha Tra Gya, per esempio, sembrano fondere i recessi della sua mente con quelli del nostro bagaglio storico di narrazioni – una specie di memorie macro e micro ”.
In “Cinematographic Rigour; A case of four Indian filmakers” di Armit Gangar.
“Il cinema di Amit Dutta, profondamente ancorato a categorie romantiche come la Natura, la Bellezza e il Sublime, cerca uno spostamento dell’uomo dal centro del mondo. (…) È qui che interviene la sua grammatica della frammentazione, in bilico tra il divisionismo del montaggio e la molteplicità del focus profondo.”
In “Modernism, by other means: the films of Amit Dutta”, di Srikanth Srinivasan.