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  • 10 Ottobre 2020

PINO DONAGGIO: TRA CINEMA E MUSICA LEGGERA ITALIANA, UNA STRAORDINARIA CARRIERA NATA PER ‘FATALITÀ’

PINO DONAGGIO: TRA CINEMA E MUSICA LEGGERA ITALIANA, UNA STRAORDINARIA CARRIERA NATA PER ‘FATALITÀ’

Incontro con il compositore di oltre 80 colonne sonore che ha legato il suo nome a quello di Brian De Palma

Oggi, in attesa delle premiazioni, il focus sul documentarista sperimentale indiano Amit Dutta e l’incontro con le tre giurate del Concorso Internazionale

 Si è aperto sulle note di Io che non vivo (senza te) l’incontro di ieri sera con il maestro Pino Donaggio, ospitato nella cittadella del cinema dell’hotel NH Venezia Rio Novo, nell’ambito del programma speciale Short Meets Pino Donaggio. Ad aprire l’evento è stato Roberto Calabretto, presidente del comitato scientifico della Fondazione Ugo e Olga Levi, consegnando al maestro un premio alla carriera che si va ad aggiungere ai numerosi riconoscimenti ricevuti in oltre cinquant’anni di musica. A ripercorrerne insieme la vita artistica, attraverso immagini e note, è stato il critico cinematografico Anton Giulio Mancino, impegnato, oltretutto, nella scrittura della biografia del maestro.

Come cantautore, racconta Donaggio, le sue canzoni erano già entrate a far parte delle colonne sonore di film del calibro di Vaghe stelle dell’Orsa… (1965), film Leone d’Oro di Luchino Visconti, e L’assassinio (1961), esordio di Elio Petri. Di lì, il passaggio alla carriera di compositore di colonne sonore – afferma il maestro – fu frutto della “fatalità”. Ricevette infatti la chiamata del produttore inglese Peter Katz, il quale voleva le sue musiche per A Venezia… un dicembre rosso shocking (1973). Con la colonna sonora che ne derivò Donaggio approdò a Londra, vinse il Premio Miglior Colonna Sonora e decise finalmente di tentare la carriera di compositore.

La svolta nella sua vita artistica arrivò però con la collaborazione con Brian De Palma, iniziata con Carrie (1976) – e destinata a continuare per altri sette film – quando il regista stava cercando un compositore in seguito alla scomparsa di Bernard Hermann, storico collaboratore di Hitchcock. De Palma scelse Donaggio perché “non voleva altri musicisti americani. Pensava che usassi gli archi in modo molto simile ad Hermann, perciò scelse me. Cercava qualcuno che facesse un certo genere di musica, per i suoi film di suspense e sesso. La fortuna che ho avuto in America è dovuta proprio al tipo di film che De Palma faceva, dove c’era poco dialogo e le scene erano principalmente accompagnate dalla musica, che così aveva modo di emergere.”

Sono proprio l’amore e la minaccia i temi cardine della sua poetica musicale, che lo rendono un autore unico e poliedrico, capace di sfruttare il suo talento in produzioni molto differenti tra loro, non limitandosi solo all’horror o al thriller, ma cimentandosi anche con le commedie – Non ci resta che piangere (con Benigni e Troisi), 7 chili in 7 giorni (con Verdone e Pozzetto), Il mio West (con Pieraccioni e Bowie) –, i drammi sociali (Il caso Moro e Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara), e la televisione. In America poi viene consacrato definitivamente creando le colonne sonore di capolavori del rapporto immagine-musica come Vestito per uccidere (1980), Blow Out (1981), e Omicidio a luci rosse (1984).

A chiudere l’incontro è stata un’altra canzone, Ruby Rain, tratta da Trauma di Dario Argento, che ha ispirato alcune domande dal pubblico riguardanti il suo rapporto con il regista italiano: “Lui aveva anche lavorato con i Goblin e Morricone. Dario di musica ne capisce molto, sa cosa vuole, passa dal jazz al funky alla classica. Gli piace variare in base al film che sta facendo. Per Trauma è persino venuto a Sofia per ascoltare l’orchestra.”

Giuseppe ‘Pino’ Donaggio nasce e cresce a Burano in una famiglia di musicisti, dalla quale viene introdotto al mondo della musica fin da giovanissimo. Comincia la sua carriera di cantautore nel 1961 al Festival di Sanremo con il brano Come sinfonia, che ottiene un notevole successo discografico. Ma è nell’edizione del 1965 con Io che non vivo (senza te) che raggiunge la fama internazionale entrando nelle classifiche di vendita di moltissimi paesi, anche grazie alle numerose cover della canzone, come You don’t have to say you love me di Elvis Presley. Nel 1973 Nicholas Roeg lo vuole come compositore della colonna sonora del film A Venezia… un dicembre rosso shocking, ambientato proprio nella città natale del musicista che gli valse il premio come miglior colonna sonora dell’anno. Nasce poi un lungo e proficuo sodalizio con Brian De Palma che lo vedrà come compositore di ben otto film del regista americano. Tra le numerose collaborazioni che lo hanno visto autore di più di ottanta soundtracks troviamo quelle con celebri registi internazionali come Joe Dante, Herbert Ross, Michael Winner e Gene Sacks, e italiani come Dario Argento, Pupi Avati, Liliana Cavani, Sergio Rubini, Michele Placido, Tinto Brass, Cinzia TH Torrini e molti altri.

La giornata conclusiva del Ca’ Foscari Short Film Festival 2020 si è invece aperta con Short meets Amit Dutta, focus su uno dei più importanti documentaristi indiani a cura di Cecilia Cossio che ogni edizione porta il pubblico dello Short a scoprire nuovi lati dello sfaccettato panorama cinematografico indiano. Classe 1977, Dutta si diploma in cinema e subito realizza i suoi primi lavori. La critica, indiana e straniera, ha scritto di lui sottolineandone il carattere sperimentale e unico del suo cinema di conoscenza ed associandovi la definizione di “prayoga”, termine sanscrito che riporta ai significati di “esperimento”, “progetto”, “rappresentazione” oppure “pratica”. Purtroppo, però, la sua opera è poco vista in patria, una scarsa distribuzione forse dovuta alla qualità quasi filosofica del suo cinema. Lo Short ha quindi proposto tre opere rappresentative di questo documentarista sperimentale: Jangarh: Film ek – Jangarh: Film One del 2008, che rappresenta, a ritroso, la carriera dell’artista tribale Jangarh Singh Shyam a partire dal suo suicidio presso un museo in Giappone; a seguire The Museum of Imagination – A Portrait in Absentia del 2012, che racconta l’incontro con lo storico dell’arte B.N. Goswami sulle tracce del miniaturista Nainsukh e, infine, Chitrashala – House of Paintings del 2015, che accompagna lo spettatore in un viaggio alla scoperta delle miniature dell’Amar Mahal, il palazzo-museo di Jammu dove, di giorno, le miniature sono solo manufatti messi in bella vista, mentre di notte si animano e prendono vita, illustrando un antico racconto.

Ultimo programma prima della cerimonia di chiusura è stato il consueto appuntamento con le tre giurate del concorso, un’importante occasione per conoscere meglio queste tre straordinarie donne e sentirle presentare alcuni dei loro lavori. Ad iniziare è stata l’attrice polacca Maria Mamona che ha presentato al pubblico il più recente cortometraggio di cui è stata protagonista, Elizabeth di Wojciech Klimala, in cui interpreta il difficile ruolo di una donna che inizia a manifestare i primi sintomi di Alzheimer. A seguire Sulafa Hijazi, animatrice e videoartista siriana, ha introdotto due delle sue opere più recenti: Red Shoes, sulla relazione che lega il nostro corpo con lo spazio nel quale viviamo, e il video-clip Drops che racconta i corpi nella loro dimensione virtuale. Infine sono stati proiettati spezzoni tratti dai lavori più celebri di Jun Ichikawa, attrice italo-giapponese che ha lavorato con alcuni dei registi più influenti del cinema italiano come Olmi, Argento e Tornatore.

Questa sera, infine, si svolgerà la cerimonia di chiusura del festival con le premiazioni dei vincitori, il conferimento del Ca’ Foscari Honorary Fellowship a Dario Argento e il grande spettacolo di chiusura dedicato a Federico Fellini realizzato da Igor Imhoff.

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