Un programma speciale di Elisabetta Di Sopra
Per la 14° edizione dello Short Film Festival, si conclude la ricognizione delle opere video performative dell’Archivio Videoart Yearbook realizzate tra il 2012 e il 2023. Grazie alla preziosa collaborazione di Silvia Grandi, docente all’università di Bologna e co-fondatrice dell’annuario, è stato possibile accedere a un archivio che vanta più di quattrocento video raccolti nel corso delle sedici edizioni della rassegna e che ora, grazie a un importante progetto di partnership, diventerà accessibile al MAMbo di Bologna al fine di diffondere la conoscenza del panorama della ricerca video italiana degli ultimi vent’anni presso un pubblico più ampio.
Nelle opere videoperformative il corpo esposto dell’artista diventa spazio pubblico e privato insieme, dove condividere le proprie tensioni, idee emozioni. Ma fino a che punto l’arte è uno strumento di comunicazione e fino a che punto invece si trasforma in un meccanismo di ritenzione? Dario Lazzaretto prova a rispondere restituendo un suo autoritratto che si fa suono. Come Dorothy Gale, Francesca Fini affronta il suo viaggio, ma il percorso è pieno di insidie. Dovrà mettere in gioco tutte le sue capacità acrobatiche per mantenere la sua storia in un equilibrio tra significato e simbolo, tra politica e arte, pace e guerra. In Alzaia(S), Francesca Leoni e Davide Mastrangelo traggono ispirazione dall’opera pittorica di Telemaco Signorini: L’Alzaia del 1864, per denunciare una società che continua a costruire la più perfetta delle illusioni gettando una luce accecante su ciò che deve esser visto e confinando nel cono d’ombra le cose che devono rimanere nascoste. Per Virgilio Villoresi le sue braccia diventano strade e le mani pagine su cui scrivere il titolo del suo cortometraggio ispirato dai libri fotografici di Mario Mariotti. Lucido, di Giovanna Ricotta è un elogio alla follia e al desiderio di superare i propri limiti cercando la perfezione. Nella performance collettiva di Filippo Berta si assiste al vano tentativo di ogni singolo individuo di distinguersi emettendo un rumore sempre più invadente, sempre più caotico. In Shãn (“montagna” in cinese) Sabrina Muzi pone l’uomo in relazione con il paesaggio. Due corpi, quello umano e quello della montagna, entrano in risonanza. La crisi climatica e quella ecologica, la contemporaneità post-pandemica e, più in generale, il presente sono il punto da cui muove Pensate domani è la fine del mondo, di Elena Bellantoni — performance che rievoca il film Nostalghia di Andreij Tarkovskij. Non c’è soluzione in Zwei di Christian Niccoli, dove due uomini appesi alle due estremità di una corda sono legati da una dipendenza reciproca senza possibilità di una via d’uscita comune. Come si vive dentro un mondo monocromo? Red di Salvatore Insana ci invita a sperimentare un universo rosso. In Family Portrait, lo scorrere del tempo e degli affetti è rappresentato dalla polvere che depositata sul corpo dell’artista Debora Vrizzi, viene soffiata via dai componenti della sua famiglia. Infine The Care di Elisabetta Di Sopra. L’amore che è cura, lima carezza per carezza, anche chi siamo noi che agiamo. Non solo dice all’altro: tu finisci qui, ma dice a noi: tu qui inizi.
Videoart Yearbook insieme a Lorenzo Balbi annuncia la concessione dell’archivio al MAMbo di Bologna, un importante progetto di partnership focalizzato sulla valorizzazione degli oltre quattrocento video raccolti nel corso delle sedici edizioni della rassegna negli spazi del museo bolognese, anche alla fine di diffondere la conoscenza del panorama della ricerca video italiana degli ultimi vent’anni presso un pubblico più ampio.
PROGRAMMA DELLE OPERE PROPOSTE:
VIRGILIO VILLORESI, Fine, 2012, 2’
Inizia dalla fine l’ultimo cortometraggio di Virgilio Villoresi, opera breve su commissione. Si apre da una scritta su di una mano che contiene il titolo e, sulle mani e con le mani dello stesso Villoresi, si svolge interamente, titoli di testa e di coda compresi. Mani dipinte che interagiscono con piccoli oggetti, braccia che diventano strade, bandiere che diventano croci. La tecnica della pittura sulle mani è stata una folgorazione per Virgilio dopo la scoperta dei libri fotografici di Mario Mariotti, straordinario artista fiorentino, scomparso nel 1997, che per oltre trent’anni a partire dai ’60 ha prodotto una sterminata galleria di fantasmagorie antropomorfe capaci di incantare ogni tipo di pubblico.
DEBORA VRIZZI, Family Portrait, 2012, 3’23”
Siedo, impolverata, ad un tavolo. La mia famiglia, in piedi a fianco a me, soffia via la polvere che si è depositata sul mio corpo. Famiglia che ci nutre e ci divora. Godiamo di questo duplice aspetto, fondamento dell’amore, contraddittorietà senza soluzione. Parlo dello scorrere del tempo e degli affetti.
GIOVANNA RICOTTA, Lucido, 2012, 8’
Lucido è un lavoro che sottolinea, nella sua sintesi, un momento di passaggio, un elogio alla follia e al desiderio di raggiungere la perfezione, analizzato attraverso il corpo della danza classica: la sbarra. Un lavoro dedicato alle costrizioni imposteci o create da noi e alla volontà di superarle trovando e accettando la propria identità e i propri limiti. Il corpo performativo rappresenta una ballerina di danza classica, che non indosserà un tutù tradizionale, ma una camicia di forza come una divisa da ballerina, ridisegnata per Lucido.
FILIPPO BERTA, Concert for Soloists #2, 2015, 2’57”
Performance realizzata presso l’Ambasciata Italiana di Berlino, Germania. Un gruppo di uomini beve il brodo seduti a un tavolo dell’Ambasciata italiana a Berlino. Ognuno di essi enfatizza ogni sorso succhiando con forza dal cucchiaino, in modo da emettere un rumore invadente. Ogni individuo manifesta la sua presenza durante l’atto del mangiare attraverso questo gorgoglio che esce dalla propria bocca, ma si ritrova inesorabilmente assorbito da un rumore caotico collettivo. Tutti cercano di distinguersi da questa uniformità collettiva (lo stesso piatto, lo stesso vestito, la stessa sedia…), ma è un tentativo vano e il risultato è una competizione parodica in cui ognuno cerca di coprire gli altri e di emergere da loro.
DARIO LAZZARETTO, Humble self-portrait of a sound artist, 2016, 2’35”
In molti casi, l’espressione artistica garantisce all’artista un valido filtro per elaborare la realtà circostante, quanto un modo per vagliare le idee e le emozioni che l’artista sente dentro di sé prima di comunicarle al mondo esterno. Ma fino a che punto l’arte sia uno strumento di comunicazione e fino a che punto invece si trasformi in un meccanismo di ritenzione, non mi è ancora chiaro…
“…tutto quello che posso dire è il suono.
a volte è un po’ soffocante
ma là fuori l’aria è rarefatta e malata
e tale disciplina diventa il filtro e la catena…”
FRANCESCA FINI, The Yellow Brick Road, 2017, 4’05”
Girato a Gerusalemme, Yellow Brick Road è la scena finale di un lungo viaggio cinematografico nella città delle tre religioni monoteiste. Un viaggio che l’artista ha trasformato nell’avventura di un romanzo di Dorothy Gale nella Città di Smeraldo, alla ricerca del grande e potente Oz. Un percorso frizzante che si trasforma in un sentiero scivoloso che l’artista deve attraversare senza cadere. “A Gerusalemme mi sento così: come Dorothy Gale che affronta il suo viaggio misterioso, ma il mio percorso è pieno di insidie. Non è facile per un artista che lavora con i simboli affrontare un luogo così pieno di segnali contraddittori. Il rischio è cadere nell’intollerabile banalità dell’arte con il ‘messaggio dentro’, ma allo stesso tempo, la scelta di evitare ogni riferimento provocatorio avrebbe potuto produrre qualcosa di troppo debole, quindi ho dovuto mettere in gioco le mie capacità acrobatiche e mantenere la mia storia in un equilibrio tra significato e simbolo, tra politica e arte, pace e guerra.”
ELISABETTA DI SOPRA, The Care, 2018, 2’34”
La cura dell’altro. Sia quando ci presentiamo alla vita sia quando ci affidiamo alla morte.
LEONI & MASTRANGELO, Alzaia (S), 2019, 4’15”
Alzaia(S) è una rielaborazione audiovisiva ispirata all’opera pittorica di Telemaco Signorini: L’Alzaia del 1864. «La nostra società è pornografica, perché continua a costruire la più perfetta delle illusioni: getta una luce accecante su ciò che deve esser visto, confinando nel cono d’ombra le cose che devono rimanere nascoste, senza più chiedersi cosa stia producendo quel vuoto di luce ormai tutto intorno a noi».
SABRINA MUZI, Shãn, 2019, 5’43”
Oggetto del lavoro è la montagna (Shān in cinese). Shān è un’immagine icona che, reiterata come un mantra, si carica di forza simbolica divenendo emblema di un archetipo e testimone di un luogo e delle sue trasformazioni. Due corpi entrano in risonanza, quello umano e quello della montagna, ponendo le basi per una nuova indagine percettiva sul paesaggio.
ELENA BELLANTONI, Pensate domani è la fine del mondo, 2021, 5’50”
La crisi climatica e quella ecologica, la contemporaneità post-pandemica e, più in generale, il presente sono il punto da cui muove Pensate domani è la fine del mondo — performance che rievoca il film Nostalghia di Andreij Tarkovskij. Durante l’intervento, ventinove giovani si muovono nello spazio come elementi destabilizzanti, come fossero ambasciatrici dei più cupi presagi sulle sorti dell’umanità. Qui il linguaggio diventa tentacolare e collettivo creando un’alleanza tra corpi. Metà umane e metà animali, queste entità sconosciute chiedono una riflessione su nuovi paradigmi sociali attraverso un’azione collettiva, di genere e multi-specie.
CHRISTIAN NICCOLI, Zwei, 2022, 5’29”
Due uomini sono legati da una dipendenza reciproca, cioè sono appesi alle due estremità di una corda che giace su un muro molto alto. Sono quindi in un limbo apparentemente eterno, senza davvero trovare una via d’uscita comune.
SALVATORE INSANA, Red, 2023, 5’00”
Una visione mentale, un esperimento percettivo. Il campo visivo trasformato dal colore. Bruciarsi gli occhi a furia di vedere. Una macchia nera, mobile, all’interno di un universo rosso, omogeneo, onirico. Un colore di una densità solida, pulsante, che si presenta in quanto racconto e non come rimando al vasto universo simbolico che da secoli gli gira intorno. Un corpo incastrato dentro un monocromo, come sfuggente, agile, ferita, s’insinua nervosa nella tinta unita, sulla soglia, tra onde di calore sonoro e nette cesure. E qualcosa si imprime nella retina, qualcosa che permane, risparmiando e riapparendo, senza riferimenti ad un determinato presente spazio-temporale. Come si vive dentro un mondo monocromo?